Tragedie del cyberbullismo: le vittime che si sono tolte la vita

La piaga del cyberbullismo (bullismo online) ha provocato, negli ultimi anni, numerose tragedie.

Di seguito sono elencate alcune vittime che si sono tolte la vita in seguito a persecuzioni e umiliazioni subite sul web. Per ciascuna di queste persone, il bullismo online è stato il fattore scatenante di un dolore insostenibile, sfociato purtroppo nel suicidio. Raccontare le loro storie è importante per capire la gravità del fenomeno e per ricordare quanto sia fondamentale impegnarsi tutti a prevenirlo e contrastarlo.

Megan Meier (13 anni, 2006)

Death of 13-year-old prompts cyberbullying test case | US news | The  Guardian

Megan era un’adolescente statunitense insicura e già provata dalla depressione. Nel 2006 venne crudelmente ingannata su MySpace: credeva di aver conosciuto online un coetaneo gentile, ma in realtà si trattava della madre di una sua ex amica, che dopo averne conquistato la fiducia iniziò a inviarle messaggi spietati e offensivi. Frasi come «Il mondo sarebbe un posto migliore senza di te» la ferirono nel profondo e, disperata, Megan si impiccò nella sua camera. Solo in seguito si scoprì la falsa identità del suo persecutore, suscitando sgomento nell’opinione pubblica per la crudeltà dell’inganno. Il caso di Megan mise in luce un vuoto normativo: all’epoca mancavano leggi adeguate per punire i cyber-bulli, il che spinse a invocare nuove tutele e diede impulso a campagne di sensibilizzazione contro il bullismo online.

Phoebe Prince (15 anni, 2010)

Settlement for bullying victim's parents made public | CNN

Phoebe era un’adolescente irlandese trasferitasi negli Stati Uniti in cerca di un ambiente accogliente. Invece, a scuola divenne bersaglio di un bullismo spietato da parte di alcuni compagni: per gelosia e pregiudizio la offendevano quotidianamente, sia di persona sia su Facebook, rivolgendole insulti crudeli a sfondo sessuale e xenofobo. Il 14 gennaio 2010, schiacciata dalla disperazione, Phoebe si impiccò nella sua casa nel Massachusetts. La sua morte sconvolse la comunità locale e portò all’incriminazione dei giovani responsabili delle vessazioni. Il caso di Phoebe spinse lo Stato del Massachusetts ad adottare leggi anti-bullismo più severe e a imporre alle scuole protocolli per intervenire tempestivamente contro gli abusi.

Tyler Clementi (18 anni, 2010)

Tyler Clementi, student outed as gay on internet, jumps to his death | US  news | The Guardian

Tyler era uno studente universitario statunitense, sensibile e riservato. Nel settembre 2010 subì una gravissima violazione della privacy: il suo compagno di stanza nascose una webcam nella loro camera e trasmise in diretta streaming un momento intimo di Tyler con un altro ragazzo, esponendolo pubblicamente senza pietà. Umiliato dall’outing forzato e incapace di sopportare l’ondata di derisione e omofobia seguita all’episodio, pochi giorni dopo Tyler si recò sul ponte George Washington e si tolse la vita lanciandosi nel vuoto. La sua morte suscitò enorme clamore negli Stati Uniti e aprì un dibattito sull’omofobia e sulla responsabilità di chi assiste passivamente a episodi di bullismo. In risposta, il New Jersey – lo Stato in cui si trovava l’università di Tyler – approvò una delle leggi anti-bullismo più rigorose del Paese, e la famiglia Clementi istituì una fondazione in suo nome per promuovere tolleranza e sicurezza online.

Jamey Rodemeyer (14 anni, 2011)

Family of bullied boy addresses thousands of school children | WBFO

Jamey era un ragazzo americano di 14 anni che aveva dichiarato apertamente la sua omosessualità e cercava di infondere coraggio ad altri giovani condividendo online messaggi di speranza (aveva persino partecipato alla campagna “It Gets Better”). Purtroppo divenne egli stesso bersaglio di continui insulti omofobi, sia a scuola sia su piattaforme anonime in rete. Giorno dopo giorno subì offese atroci – fra cui inviti a uccidersi – che lo fecero sentire sempre più solo e senza via d’uscita. Nel settembre 2011, dopo mesi di questo tormento, Jamey si impiccò vicino alla sua casa. La sua morte fece il giro dei media internazionali: la popstar Lady Gaga gli dedicò una canzone durante un concerto e si impegnò pubblicamente per chiedere leggi più severe contro il bullismo omofobo. Il caso di Jamey divenne simbolo della sofferenza silenziosa di tanti adolescenti LGBTQ+ e rafforzò la consapevolezza sull’urgenza di contrastare l’odio e le discriminazioni sia online che offline.

Amanda Todd (15 anni, 2012)

Amanda Todd: Dutch court cuts jail term for fatal cyber-stalking

Amanda era una quindicenne canadese vivace ma vulnerabile, precipitata in un incubo di ricatti e umiliazioni online. Tutto iniziò quando, poco più che dodicenne, fu adescata in una video-chat da un estraneo che la convinse a mostrarsi a seno nudo: quell’immagine privata venne usata per ricattarla e, in seguito, diffusa sul web. Da quel momento Amanda fu perseguitata da una marea di offese e insulti sia online che nella vita reale; compagni di scuola la bersagliarono con epiteti volgari e la isolarono, arrivando perfino ad aggredirla fisicamente. Nonostante i trasferimenti di istituto, la depressione di Amanda si aggravò al punto che il 10 ottobre 2012 la ragazza si tolse la vita impiccandosi nella sua casa. Poco prima, aveva raccontato il suo calvario in un video su YouTube mostrato tramite una serie di cartelli: quel video, pubblicato un mese prima della sua morte, diventò virale e commosse il mondo, portando l’attenzione globale sul fenomeno del cyberbullismo e del “revenge porn”. Il caso di Amanda spinse il Canada ad aggiornare la legislazione: vennero introdotte nuove norme contro la condivisione non consensuale di immagini intime, e la madre di Amanda si fece portavoce internazionale della lotta al bullismo online, creando anche una fondazione in memoria della figlia.

Audrie Pott (15 anni, 2012)

Bay Area principal in Audrie Pott tragedy still ignores sex abuse  survivors, students say | KRON4

Audrie era una studentessa californiana di 15 anni, solare e benvoluta dai suoi amici. Nel settembre 2012, durante una festa, subì un grave abuso: alcuni coetanei approfittarono di lei mentre era priva di sensi e scattarono foto esplicite dell’accaduto, diffondendole poi tra i compagni di scuola. Al risveglio, Audrie si ritrovò esposta alla derisione e alla vergogna pubblica: quelle immagini innescarono una valanga di commenti crudeli e pettegolezzi sui social e nei corridoi, che la fecero sentire profondamente umiliata e indifesa. Solo otto giorni dopo, sopraffatta dal dolore e dal disonore, Audrie si impiccò. La notizia della sua morte sconvolse la comunità: i responsabili furono incriminati e, sull’onda dell’indignazione, in California venne approvata la “Audrie’s Law” per punire più severamente chi diffonde foto intime senza consenso e commette violenze sessuali. Il tragico caso di Audrie rese evidente quanto possano essere devastanti le conseguenze del cyberbullismo legato alla violenza di genere, e stimolò scuole e famiglie a discutere più apertamente di questi temi.

Andrea Spezzacatena (15 anni, 2012)

La storia del 'ragazzo dai pantaloni rosa' diventa film, a maggio primo ciak

Andrea era un ragazzo romano di 15 anni, sensibile e creativo, che amava esprimere la propria personalità senza conformismi. Un giorno si presentò a scuola indossando un paio di pantaloni scoloriti diventati rosa dopo un lavaggio, scatenando l’irrisione di alcuni compagni. Da quell’episodio nacque un incubo: i bulli lo etichettarono come “il ragazzo dai pantaloni rosa”, creando persino una pagina Facebook per deriderlo pubblicamente con allusioni omofobe. Andrea, ferito e isolato da quei dileggi continui sia a scuola che online, il 20 novembre 2012 cedette alla disperazione e si tolse la vita impiccandosi con una sciarpa. La sua morte provocò proteste tra gli studenti in diverse scuole d’Italia e scosse l’opinione pubblica, mostrando come anche uno scherno all’apparenza banale possa distruggere una giovane vita. In seguito, sua madre raccontò la vicenda in un libro, e il nome di Andrea entrò dolorosamente nel dibattito pubblico sul cyberbullismo, rafforzando la richiesta di azioni concrete contro le prepotenze online tra i ragazzi.

Carolina Picchio (14 anni, 2013)

Paolo Picchio: “In nome di mia figlia Carolina aiuto i ragazzi a non morire  di web” - la Repubblica

Carolina era una ragazza di 14 anni di Novara, solare e altruista, purtroppo destinata a diventare il simbolo delle vittime di cyberbullismo in Italia. La notte del 5 gennaio 2013, sopraffatta dalla vergogna e dalla disperazione, Carolina si gettò dal balcone della sua cameretta e morì sul colpo. Pochi mesi prima, un episodio terribile l’aveva profondamente segnata: durante una festa era stata filmata mentre, intontita dall’alcol, subiva molestie degradanti da parte di alcuni ragazzi (tra cui un suo ex fidanzato); quel video era stato poi pubblicato su Facebook, scatenando una valanga di insulti e derisioni nei suoi confronti. La tragedia di Carolina fu un potente campanello d’allarme: venne aperto il primo processo per cyberbullismo in Italia a carico dei giovani coinvolti, e in sua memoria fu promulgata la Legge 71/2017 (la prima legge italiana ed europea sul cyberbullismo) per prevenire e contrastare le vessazioni online tra i minori. Suo padre fondò la Fondazione Carolina per educare i giovani a un uso sicuro e rispettoso di Internet, trasformando il dolore in un impegno concreto per proteggere altri ragazzi.

Rehtaeh Parsons (17 anni, 2013)

Nessun posto dove nascondersi: La storia di Rehtaeh Parsons – Filmer på  Google Play

Rehtaeh era un’adolescente canadese con un passato di traumi alle spalle. All’età di 15 anni era stata violentata da quattro coetanei durante una festa; come se non bastasse, uno di loro scattò una foto dell’abuso e la diffuse tra i compagni. Da quel momento Rehtaeh divenne bersaglio di un brutale cyberbullismo: molti conoscenti, saputo del fatto, la insultarono pesantemente online, affibbiandole epiteti offensivi e colpevolizzandola per la violenza subita. La ragazza precipitò in una depressione profonda e nell’aprile 2013 tentò il suicidio impiccandosi; entrò in coma e morì pochi giorni dopo in ospedale senza mai riprendere conoscenza. La sua morte provocò indignazione in tutto il Canada, soprattutto perché inizialmente le autorità non avevano incriminato i responsabili. Sotto la pressione dell’opinione pubblica, furono infine avviate nuove indagini: alcuni dei colpevoli vennero imputati per la diffusione delle foto, e la provincia della Nuova Scozia introdusse una legge pionieristica contro il cyberbullismo (poi riveduta per questioni costituzionali). Anche a livello federale il caso di Rehtaeh contribuì ad accelerare l’approvazione di normative più severe contro la condivisione non consensuale di immagini intime. La sua storia costrinse molti a riflettere sulla tendenza a colpevolizzare le vittime e sull’urgenza di offrire maggior supporto a chi subisce abusi e bullismo.

Hannah Smith (14 anni, 2013)

Teenager Hannah Smith killed herself because of online bullying, says  father | Cyberbullying | The Guardian

Hannah era una ragazza di 14 anni che viveva in Inghilterra, sorridente ma alle prese con alcune insicurezze (soffriva, ad esempio, di eczema e veniva derisa per questo). Nel 2013 cercò sostegno emotivo su una piattaforma di domande anonime (Ask.fm), ma quello spazio si tramutò presto in un incubo: cominciò a ricevere messaggi atroci da utenti sconosciuti che la insultarono ferocemente e la incitarono addirittura a togliersi la vita. Per settimane Hannah subì questo bombardamento di odio virtuale, finché il 2 agosto 2013 decise di impiccarsi nella sua cameretta, incapace di sopportare oltre quel veleno quotidiano. La sua morte scosse profondamente il Regno Unito e alimentò un acceso dibattito sulla responsabilità delle piattaforme online nel frenare l’anonimato maligno. Diverse aziende ritirarono la pubblicità da Ask.fm in segno di protesta, costringendo il sito a introdurre misure di sicurezza più rigide. Il caso di Hannah divenne emblematico dei pericoli dell’anonimato in rete e spinse genitori, scuole e istituzioni britanniche a vigilare con maggiore attenzione sul benessere digitale degli adolescenti.

Rebecca Ann Sedwick (12 anni, 2013)

Questions Linger After Sedwick's Death In Cyberbullying Case | WLRN

Rebecca era una bambina di 12 anni della Florida (USA) la cui giovane vita fu travolta da una crudeltà inconcepibile. Per oltre un anno fu tormentata da alcune coetanee che la insultavano e la emarginavano continuamente, sia a scuola sia su Internet. Queste ragazzine le inviavano messaggi spietati – come «sei inutile» o «ucciditi» – facendole credere di non valere nulla. Questa persecuzione incessante portò Rebecca al punto di rottura: il 9 settembre 2013 salì su una torre abbandonata di un cementificio e si lanciò nel vuoto, ponendo fine alle sue sofferenze. Il suo suicidio fece scalpore su tutti i media americani. In un gesto esemplare, le autorità arrestarono due adolescenti ritenute tra le principali responsabili delle vessazioni (in seguito le accuse vennero ritirate), volendo lanciare un segnale forte. Il caso di Rebecca riaccese il dibattito sulla responsabilità dei genitori e delle scuole nel monitorare e prevenire il cyberbullismo. Sua madre avviò una campagna per aiutare altre vittime, e molte scuole del suo Stato rafforzarono i programmi educativi per evitare che episodi simili potessero ripetersi.

Tiziana Cantone (31 anni, 2016)

Uccisa dal web», la storia di Tiziana Cantone diventa un libro

Tiziana era una giovane donna campana la cui vita fu segnata da una brutale gogna mediatica. Nel 2015 alcuni video privati a sfondo sessuale, che Tiziana aveva condiviso con pochi conoscenti, furono diffusi in rete senza il suo consenso. In breve tempo quei filmati – e in particolare un frammento in cui lei pronuncia una frase poi divenuta tristemente virale – si sparsero a macchia d’olio online, generando un’ondata di scherno e insulti nei suoi confronti. Tiziana provò disperatamente a difendersi: intraprese vie legali per far rimuovere i video e cercò perfino di cambiare identità e città, ma l’incubo la seguiva ovunque. Il 13 settembre 2016, sopraffatta dalla vergogna e dal dolore, si impiccò con un foulard nella cantina della sua abitazione. La sua morte scosse profondamente l’opinione pubblica italiana e aprì un dibattito sulla tutela della privacy e della dignità online. Anche grazie alla mobilitazione nata dal caso di Tiziana, nel 2019 l’ordinamento italiano introdusse il reato di diffusione non consensuale di materiale intimo (il cosiddetto revenge porn). Tiziana rimane ancora oggi un doloroso monito di quanto devastante possa essere la violenza perpetrata attraverso i social, e della necessità di responsabilizzare sia gli utenti sia le piattaforme digitali.

Amy “Dolly” Everett (14 anni, 2018)

Dolly Everett's suicide leads teen to create 'powerful and relevant'  cyberbullying ad - ABC News

Dolly era un’adolescente australiana di 14 anni, un tempo conosciuta per aver posato da bambina in una famosa pubblicità di cappelli. Dietro il suo sorriso, però, si nascondeva un dolore crescente: alcuni coetanei iniziarono a bersagliarla con offese gratuite sui social network, senza un motivo apparente se non la crudeltà. Col passare dei mesi quelle parole cattive erosero la sua gioia di vivere. Il 3 gennaio 2018 Dolly decise di porre fine alle sue sofferenze e si tolse la vita. La sua morte gettò nello sconforto l’intera Australia. In una lettera aperta straziante, il padre di Dolly invitò persino i bulli di sua figlia a presentarsi al funerale, affinché comprendessero la gravità delle loro azioni. Il caso ebbe un impatto enorme: la famiglia Everett lanciò l’iniziativa “Dolly’s Dream” per combattere il bullismo e migliaia di australiani si mobilitarono in suo ricordo, indossando il colore preferito di Dolly durante eventi di sensibilizzazione. Da allora il problema del cyberbullismo viene affrontato con maggior impegno in Australia, e Dolly divenne il volto simbolo di una campagna nazionale per promuovere la gentilezza e il rispetto online.

Sulli (Choi Jin-ri, 25 anni, 2019)

La morte di Sulli e il lato oscuro del K-pop | Rolling Stone Italia

Conosciuta con il nome d’arte Sulli, Choi Jin-ri era una popolare cantante e attrice sudcoreana di 25 anni. Nonostante il successo, veniva costantemente bersagliata da commenti offensivi e misogini sul web, a causa delle sue opinioni schiette e del suo stile di vita indipendente che sfidava i tabù della società conservatrice. Ogni sua scelta personale – dalle relazioni sentimentali al sostegno al femminismo – scatenava ondate di insulti da parte di migliaia di utenti anonimi sui social network. Questa pressione continua contribuì a far precipitare Sulli in una grave depressione. Il 14 ottobre 2019 fu trovata senza vita nella sua abitazione: si era suicidata impiccandosi. La notizia della sua scomparsa sconvolse milioni di fan in tutto il mondo e avviò un esame di coscienza collettivo in Corea del Sud sul dilagare dell’odio online. In seguito a questa tragedia, furono proposte nuove normative (la cosiddetta “Legge Sulli”) per limitare l’anonimato in rete e punire più severamente le molestie virtuali. Il caso di Sulli spinse i principali portali web sudcoreani a sospendere i commenti anonimi sulle notizie di spettacolo e portò l’industria dell’intrattenimento a offrire maggior supporto psicologico ai propri artisti, spesso bersaglio del giudizio feroce del web.

Vincent Plicchi (23 anni, 2023)

Quello del tiktoker Vincent Plicchi è un caso di scuola. Da noi manca il  reato di cyberbullismo” - la Repubblica

Vincent, un giovane bolognese di 23 anni, era conosciuto online come “Inquisitor Ghost” ed era diventato popolare su TikTok per i suoi video in cui impersonava un personaggio da videogame. Dietro la popolarità, però, si celava un profondo malessere: da tempo Vincent era bersagliato da messaggi denigratori e insulti da parte di hater sui suoi canali social, attacchi continui che ne minavano l’autostima. Nell’ottobre 2023 compì un gesto estremo in diretta streaming: si tolse la vita davanti a migliaia di spettatori, trasmettendo il suo suicidio su TikTok. La tragedia ebbe un’enorme risonanza mediatica in Italia e sollevò dolorosi interrogativi su quanto gli attacchi subiti online avessero inciso sul suo stato d’animo. Le autorità aprirono un’inchiesta per istigazione al suicidio, nel tentativo di identificare eventuali responsabili tra coloro che lo avevano tormentato in rete, ma l’indagine venne archiviata per mancanza di prove concrete. La morte di Vincent accese i riflettori sulla salute mentale dei creatori di contenuti online e sulla pericolosità del cyberbullismo, spingendo molti a chiedere maggiori tutele contro l’odio in rete.

Davide “Alex” Garufi (21 anni, 2025)

Alexandra Garufi, sui social la solidarietà dopo la morte della tiktoker  insultata dagli hater - la Repubblica

Davide, conosciuto anche come Alex sui social, era un ragazzo milanese di 21 anni che con coraggio condivideva online il suo percorso di transizione di genere. Questa apertura gli attirò addosso una serie di attacchi transfobici feroci: numerosi utenti, spesso protetti dall’anonimato, lo bersagliarono di insulti legati alla sua identità di genere, sia sul web sia – a quanto pare – nella vita quotidiana. Nonostante l’appoggio di molte persone, quelle parole piene d’odio lo ferirono profondamente. Nel marzo 2025 Davide si tolse la vita nel suo appartamento, sparandosi con la pistola del padre (che di professione era guardia giurata). La sua morte sconvolse la comunità LGBTQ+ e non solo, suscitando indignazione per l’odio insensato che aveva dovuto subire. La magistratura aprì un fascicolo per istigazione al suicidio, tentando di individuare eventuali responsabili diretti tra coloro che lo avevano perseguitato online. Il caso di Davide commosse e fece riflettere l’opinione pubblica italiana, rinnovando gli appelli a combattere con più forza la transfobia e a offrire sostegno concreto a chi subisce discriminazioni così devastanti.

La memoria di queste vite spezzate dal cyberbullismo deve spingerci a non restare indifferenti.

Ognuno di questi casi ha generato indignazione e, in alcuni, anche cambiamenti positivi: dall’approvazione di leggi più severe alle campagne di sensibilizzazione promosse dai familiari, dalle denunce sui media alle mobilitazioni sui social network.

Ricordare queste storie dolorose significa ribadire che nessuno dovrebbe sentirsi solo di fronte alla violenza online e che l’empatia, l’educazione digitale e l’intervento tempestivo possono davvero salvare delle vite.

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