Tutte le cazzate di Giorgia Meloni! Un governo di bugie, inganni e cattiveria!

Dalle parole ai fatti: il confronto tra promesse e realtà

Ciao Ignoranti!!! Quando Giorgia Meloni è salita al potere come Presidente del Consiglio, ha portato con sé un’ondata di speranze per i suoi elettori e una lunga lista di promesse elettorali. Dalla lotta contro l’immigrazione clandestina al taglio delle tasse, dalla difesa del ceto medio al rafforzamento della sovranità nazionale, molte dichiarazioni hanno segnato la sua campagna. Ma a distanza di tempo, quante di queste promesse sono state davvero mantenute? Analizziamo punto per punto le principali promesse di Giorgia Meloni e vediamo cosa è cambiato nella realtà.

1. Immigrazione: fine degli sbarchi?

Una delle promesse più forti di Meloni riguardava la lotta all’immigrazione clandestina. Ha dichiarato più volte di voler “fermare gli sbarchi” e di mettere un freno all’arrivo di migranti irregolari sulle coste italiane. Tuttavia, i dati parlano chiaro: gli sbarchi sono aumentati rispetto agli anni precedenti, nonostante gli accordi con paesi come la Tunisia per il contenimento dei flussi migratori. La realtà ha dimostrato che fermare gli sbarchi con misure politiche è molto più complicato di quanto promesso in campagna elettorale.

2. Taglio delle tasse e aiuto al ceto medio

Meloni ha sempre sottolineato la necessità di ridurre il carico fiscale, in particolare per il ceto medio e le imprese. Tuttavia, il quadro economico attuale mostra un’Italia in cui il costo della vita è aumentato, mentre le riduzioni fiscali tanto promesse tardano ad arrivare in modo concreto. Alcuni interventi, come la riforma dell’IRPEF, hanno avuto un impatto limitato e non hanno portato i benefici sperati alla maggior parte della popolazione.

3. Aumento delle pensioni minime

Un altro punto forte della sua campagna elettorale riguardava l’aumento delle pensioni minime per garantire maggiore dignità ai pensionati italiani. Tuttavia, l’aumento è stato molto inferiore alle aspettative, con incrementi che non hanno realmente risolto il problema del potere d’acquisto degli anziani, soprattutto a fronte dell’inflazione crescente.

4. Sovranità nazionale e rapporti con l’Europa

Meloni si è sempre presentata come una paladina della sovranità italiana, criticando l’eccessiva influenza dell’Unione Europea sulle politiche nazionali. Tuttavia, una volta al governo, ha dovuto mantenere un atteggiamento più moderato per non compromettere i fondi del PNRR e i rapporti con Bruxelles. Questo ha portato a un ridimensionamento della sua retorica anti-UE, dimostrando che alcune promesse erano più slogan elettorali che reali programmi di governo.

5. Lotta alla burocrazia e riforme strutturali

Uno degli impegni più discussi era quello di semplificare la burocrazia e rendere più snello l’apparato amministrativo italiano. Ad oggi, i cittadini e le imprese si trovano ancora a combattere con una macchina burocratica lenta e farraginosa. Le riforme proposte sono state parziali e non hanno eliminato i problemi strutturali del sistema.

6. Difesa del potere d’acquisto e lotta all’inflazione

Meloni aveva promesso di combattere l’inflazione e proteggere il potere d’acquisto degli italiani. Tuttavia, il costo della vita è aumentato considerevolmente e molte famiglie si trovano in difficoltà con bollette più alte e un carrello della spesa sempre più costoso. Il governo ha adottato alcune misure, ma i risultati non sono stati sufficienti a fermare la crisi economica.

Cosa resta delle promesse?

Il governo di Giorgia Meloni si trova di fronte a sfide complesse, e molte delle promesse fatte durante la campagna elettorale si sono scontrate con la realtà politica ed economica. Alcune misure sono state parzialmente attuate, altre sono state accantonate o ridimensionate. Il problema principale rimane la difficoltà di tradurre slogan elettorali in azioni concrete ed efficaci.

Ma allora, ignoranti, vi sentite traditi dalle promesse non mantenute? O credete che governare sia più difficile di quanto sembri?

Promesse di Giorgia Meloni: dichiarazioni, realizzazioni e mancati adempimenti

Giorgia Meloni cari Ignoranti è diventata Presidente del Consiglio nell’ottobre 2022 dopo la vittoria alle elezioni politiche del 25 settembre alla guida della coalizione di centrodestra. Durante la campagna elettorale, Meloni ha fatto numerose promesse su temi chiave – dal fisco all’occupazione, dalla famiglia all’immigrazione, fino alle riforme istituzionali – presentando il suo programma come un “piano di volo” per risollevare l’Italia. Nei primi mesi di governo ha ribadito molte di queste intenzioni nelle sedi istituzionali (come nel discorso di insediamento alle Camere) e in varie interviste. A più di un anno dall’inizio del suo mandato, è possibile tracciare un bilancio: quali promesse sono state mantenute e quali invece disattese, analizzando per queste ultime le ragioni del mancato adempimento, tenendo conto dei vincoli politici, economici e istituzionali incontrati dal governo Meloni.

Durante l’estate 2022, in piena campagna elettorale, Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia hanno presentato un articolato programma in 25 punti (intitolato “Pronti a risollevare l’Italia”) e diffuso slogan efficaci per comunicare le loro proposte. Ecco le principali promesse fatte da Meloni, suddivise per ambito, insieme al contesto in cui sono state esplicitamente dichiarate:

  • Fisco e tasse: Meloni ha più volte promesso una riduzione della pressione fiscale. In diversi comizi e attraverso le “pillole di programma” pubblicate sui social, ha lanciato lo slogan “Più assumi, meno paghi”, proponendo una super-deduzione del 120-150% del costo del lavoro per le nuove assunzioni. In pratica, le aziende avrebbero potuto dedurre dalle tasse più di quanto speso per i nuovi assunti, per stimolare l’occupazione. «Ci impegniamo da subito a introdurre un meccanismo di super-deduzione del costo del lavoro per chi aumenta il numero di occupati rispetto agli anni precedenti», spiegava Meloni in un video pubblicato a fine agosto 2022. Un’altra promessa fiscale centrale è stata la “flat tax”: Meloni e la coalizione di centrodestra hanno proposto un’estensione progressiva della tassa piatta al 15%. In campagna elettorale Meloni ha parlato di flat tax fino a 100.000 euro di fatturato per le partite IVA (imprese individuali e autonomi), al posto del tetto di 65.000 euro vigente, e in prospettiva l’idea di una flat tax incrementale sui redditi aggiuntivi dei lavoratori dipendenti. Inoltre, ha garantito “nessuna nuova tassa patrimoniale” e niente aumenti di IVA, accusando la sinistra di voler introdurre imposte sulla casa o sui risparmi.
  • Prezzi, carburanti ed energia: Nel pieno dell’emergenza energetica del 2022 (con bollette e carburanti alle stelle), Meloni ha promesso interventi immediati. Alla trasmissione Porta a Porta prima del voto, dichiarò che il primo provvedimento del suo governo sarebbe stato “il disaccoppiamento del costo del gas da quello dell’elettricità” sul mercato italiano, se l’Unione Europea non avesse agito in tal senso. Questo per frenare il rincaro della corrente elettrica (prodotta anche da fonti più economiche) legato al prezzo altissimo del gas. Meloni stimò il costo di questa misura in 3-4 miliardi di euro e la presentò come urgente. Riguardo ai carburanti, diventò virale un suo video (registrato poco prima della campagna elettorale, ma da lei mai smentito) in cui elencava una per una le accise storiche sulla benzina – imposte aggiuntive risalenti a eventi del passato – e prometteva di tagliarle per abbassare il prezzo alla pompa. In generale, Meloni ha attaccato spesso i precedenti governi accusandoli di incassare troppi soldi dalle accise e ha lasciato intendere che con lei al governo “la pacchia sarebbe finita” anche per lo Stato sulle tasse sui carburanti. Nel programma, inoltre, Fratelli d’Italia proponeva sgravi su bollette e carburanti e un grande “Piano energetico nazionale”: diversificazione delle fonti (con il cosiddetto “Piano Mattei” per fare dell’Italia un hub energetico con gas dall’Africa e dall’East Med), più estrazione di gas nazionale (sblocco delle trivellazioni in Adriatico e altrove) e valutazione di un ritorno al nucleare di nuova generazione. Sul fronte ambiente, il programma menzionava obiettivi come piantare milioni di alberi e creare nuove aree protette per la biodiversità, pur subordinando la transizione ecologica alla tutela del sistema produttivo.
  • Lavoro e welfare: Oltre alla già citata super-deduzione per chi assume, Meloni ha promesso di tagliare il cuneo fiscale sul lavoro (ovvero ridurre le tasse e contributi che pesano su stipendi e salari, per aumentare il netto in busta paga). Pur riconoscendo che un taglio significativo del cuneo avrebbe avuto costi elevati, in campagna elettorale ha sostenuto la necessità di dare più soldi ai lavoratori riducendo gli oneri a carico delle imprese. Un’altra promessa qualificante è stata la sostituzione del Reddito di Cittadinanza. Meloni ha duramente criticato il sussidio introdotto dal Movimento 5 Stelle, definendolo “metadone di Stato”: nei comizi ha assicurato che il Reddito di Cittadinanza sarebbe stato abolito per gli abili al lavoro («nessuno deve rimanere indietro, ma il RdC va cancellato per chi può lavorare») e sostituito con altre misure di sostegno più legate alla formazione e al reinserimento lavorativo. In tema di ammortizzatori sociali, nel programma di FdI compariva l’idea di un’indennità di disoccupazione anche per i lavoratori autonomi (piccoli imprenditori e partite IVA), sul modello della NASpI riservata ai dipendenti: una proposta di “universalizzazione” del welfare che Meloni aveva richiamato nei suoi video, dicendo che il centrodestra avrebbe creato uno strumento apposito per chi perde la propria attività autonoma.
  • Pensioni: La coalizione di centrodestra (soprattutto la Lega, ma con il sostegno di Meloni) ha promesso di superare la legge Fornero sulle pensioni, che dal 2011 ha innalzato l’età pensionabile. In campagna elettorale si è parlato di introdurre “Quota 41” (ossia la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica) o comunque di consentire un’uscita più flessibile dal lavoro rispetto al requisito standard di vecchiaia (67 anni). Meloni, pur meno focalizzata di Salvini su questo tema, ha comunque garantito ai suoi elettori che la “Fornero” sarebbe stata archiviata e che si sarebbe garantita “una vecchiaia serena” ai lavoratori prossimi alla pensione. Silvio Berlusconi aggiunse un’ulteriore promessa condivisa dalla coalizione: alzare le pensioni minime a 1000 euro al mese per gli anziani, misura popolare che Meloni non ha smentito in campagna (pur essendo una proposta storica di Forza Italia).
  • Famiglia e natalità: Questo è stato uno dei cavalli di battaglia di Meloni. Nel primo punto del programma FdI campeggiava lo “sostegno alla natalità e alla famiglia”. Meloni, anche nei dibattiti televisivi, ha insistito sulla necessità di contrastare il declino demografico italiano. Tra le promesse specifiche, spicca l’idea di introdurre il “quoziente familiare” nel sistema fiscale: in pratica, un meccanismo per calcolare le tasse in base al numero di componenti della famiglia, alleggerendo il carico sui nuclei con figli. Inoltre, il programma di FdI prometteva l’aumento dell’Assegno Unico Universale per i figli: Meloni ha citato la cifra di 300 euro al mese per il primo anno di vita di ogni figlio (rispetto al massimo di circa 175 euro vigente per il primo figlio nelle famiglie a basso reddito), 260 euro dal secondo anno fino ai 18 anni, e il mantenimento dell’assegno attuale fino ai 21 anni di età. Insomma, un potenziamento netto degli aiuti alle famiglie con figli. In vari comizi Meloni ha detto chiaramente «Lo Stato deve aiutare chi fa figli», proponendo anche incentivi per asili nido e congedi. Sempre in tema famiglia, Meloni ha promesso misure per proteggere l’infanzia: ad esempio tagliare l’IVA su pannolini, latte in polvere e prodotti per bambini, così da renderli più economici, e più risorse per servizi all’infanzia. Da ultimo, sul fronte casa Meloni in un video del 29 agosto 2022 dichiarò che Fratelli d’Italia avrebbe reso impignorabile la prima casa: «Se hai la piena proprietà della tua abitazione, non ti verrà più sottratta», disse, criticando la sinistra per non aver mai tutelato abbastanza la casa di famiglia. Contestualmente, il programma FdI ribadiva “no a nuove tasse sulla prima casa” e proponeva zero tasse sui primi 100.000 euro di valore per l’acquisto della prima abitazione (ossia esenzioni su imposte di registro, IVA o mutui fino a quella cifra).
  • Immigrazione e sicurezza: Forse la promessa più nota di Meloni sul tema migranti è stata il famoso “blocco navale”. Nel corso di comizi estivi e interviste (come un intervento del 21 agosto 2022 ripreso da vari media), Meloni ha invocato un blocco navale europeo al largo delle coste del Nord Africa per fermare le partenze di barconi di migranti clandestini. Ha spiegato che, a suo avviso, questa operazione – da condurre d’intesa con le autorità nordafricane – avrebbe dovuto impedire fisicamente ai barconi di partire, creando al contempo hotspot nei Paesi di transito dove vagliare le richieste di asilo e distribuire i rifugiati in modo legale. Lo slogan «Blocco navale subito!» è stato ripetuto più volte come soluzione per “fermare l’immigrazione illegale e restituire sicurezza ai cittadini” (citando testualmente uno dei 25 punti programmatici). Oltre al blocco navale, Meloni ha promesso più rimpatri di immigrati irregolari, nuovi accordi con i Paesi di origine e tolleranza zero per l’immigrazione clandestina. In tema sicurezza interna, ha parlato di pugno duro contro criminalità e degrado: ad esempio, sgombero immediato delle occupazioni abusive di immobili (case occupate illegalmente) e più tutela della proprietà privata. Ha anche cavalcato temi come la lotta alle baby gang, la difesa dei confini nazionali e la revisione delle norme che, a suo dire, penalizzavano le forze dell’ordine (limitazioni all’uso della legittima difesa, ecc.). Nel complesso il messaggio era “ordine e sicurezza”: Meloni sosteneva che con il centrodestra sarebbero finiti anarchia e lassismo e “gli italiani sarebbero tornati padroni a casa loro”.
  • Riforme istituzionali: Un punto qualificante del programma di Giorgia Meloni era la riforma in senso presidenziale dello Stato. Fin dall’inizio della campagna, e poi nel programma di coalizione dell’11 agosto 2022 (“Per l’Italia”), il centrodestra ha promesso l’elezione diretta del Presidente della Repubblica o comunque un rafforzamento del modello di governo per garantire stabilità (in alternativa, si è parlato di un sistema semi-presidenziale sul modello francese o di un “premierato forte”). Meloni nei comizi diceva: «Gli italiani devono poter eleggere direttamente il Capo dello Stato, per avere istituzioni più stabili e un governo che dura cinque anni». Questa riforma costituzionale veniva presentata come prioritaria per uscire dall’instabilità cronica dei governi italiani. Inoltre, Meloni ha sostenuto la causa della “autonomia differenziata” per le Regioni (cara alla Lega), cioè la possibilità per le regioni di ottenere maggiori competenze su materie come sanità, trasporti, istruzione, mantenendo però il principio di unità nazionale e solidarietà verso le regioni più deboli. Altri impegni istituzionali includevano la riforma della giustizia (ad esempio la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, tempi più brevi dei processi, e una “giustizia giusta” senza politicizzazioni) e la riduzione dei tempi della burocrazia. Meloni spesso ripeteva che “lo Stato non deve disturbare chi vuole fare”, promettendo meno burocrazia e più efficienza nella pubblica amministrazione.
  • Politica estera e rapporto con l’Europa: Sul fronte internazionale, Meloni ha garantito continuità nell’alleanza atlantica e sostegno all’Ucraina. Pur provenendo da una storia politica euroscettica, in campagna elettorale ha rassicurato che l’Italia non avrebbe abbandonato l’euro né messo in discussione la collocazione nell’UE e nella NATO. Anzi, si è presentata come affidabile per i partner occidentali, pur dichiarando di voler “difendere l’interesse nazionale” in Europa. Un suo slogan in un comizio è stato: «Per l’Europa è finita la pacchia: difenderemo l’Italia a testa alta», lasciando intendere un atteggiamento più assertivo nelle sedi UE, ad esempio nel chiedere una revisione dei vincoli di bilancio europei (Patto di Stabilità) e maggiore rispetto per le esigenze italiane. Ha più volte ribadito no alla ratifica del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) finché non fosse cambiato (tema caro a FdI da anni), e ha detto di voler rinegoziare alcune parti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per adattarlo ai nuovi scenari (inflazione post-pandemia, crisi energetica). In passato Meloni aveva espresso posizioni dure come “meglio Trump che Merkel” o aperture a spostare l’ambasciata italiana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, ma durante la campagna 2022 è stata più cauta su temi divisivi di politica estera, concentrandosi sul messaggio di una Italia protagonista ma affidabile. In sostanza, prometteva discontinuità retorica con i governi precedenti (più orgoglio nazionale) ma senza strappi traumatici con gli alleati internazionali.

I primi mesi di governo: conferme e prime scelte

Dopo la vittoria elettorale, Meloni ha giurato come premier il 22 ottobre 2022. Nei primi mesi di governo molte delle promesse sono state confermate nei discorsi ufficiali, anche se le prime scelte operative hanno rivelato le difficoltà di realizzarle appieno.

  • Discorso di insediamento (25 ottobre 2022): Nel suo intervento alle Camere per la fiducia, Meloni ha delineato le linee programmatiche riprendendo gran parte degli impegni elettorali. Ha ribadito la volontà di introdurre il presidenzialismo, definendolo un obiettivo di legislatura per dare stabilità all’Italia. Ha confermato il posizionamento euro-atlantico dell’Italia («non intendiamo sabotare l’UE, ma renderla più efficiente nel rispondere ai bisogni dei popoli»), assicurando continuità nel sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa. Sul piano economico, Meloni ha parlato di emergenza inflazione e caro energia come priorità immediata, promettendo interventi per calmierare bollette e carburanti (nelle sue parole: «faremo il possibile per aiutare famiglie e imprese a superare l’inverno»). Ha menzionato la riduzione del cuneo fiscale come obiettivo per rilanciare salari, e la necessità di ridurre il debito pubblico attraverso la crescita economica, non con tagli draconiani (prendendo le distanze dall’austerità). Ha confermato la linea dura su immigrazione illegale, chiedendo solidarietà europea e accennando alla cooperazione con l’Africa per fermare le partenze (anche se il termine “blocco navale” non è stato esplicitamente ripetuto in sede parlamentare, il concetto di difesa dei confini era presente). Meloni ha anche rassicurato sul fatto che alcune riforme strutturali (fisco, pensioni, giustizia) sarebbero arrivate gradualmente, invitando però a valutare il governo sull’intera legislatura: «Ci aspettano cinque anni di lavoro: non faremo tutto subito, ma abbiamo una meta chiara», ha detto in sostanza.
  • Primi provvedimenti e Legge di Bilancio 2023: Tra novembre e dicembre 2022 il governo ha dovuto elaborare la prima manovra finanziaria, mettendo mano concreta alle promesse. Alcune promesse sono state mantenute o avviate subito: ad esempio, nella Legge di Bilancio 2023 è stato alzato il tetto del contante a 5.000 euro (come promesso per favorire la libertà nei pagamenti, invertendo la stretta a 1.000 euro dei precedenti governi). È stata estesa la flat tax per gli autonomi al 15% fino a 85.000 euro di ricavi (non ancora 100.000 come nel programma, ma un primo incremento significativo). È stato avviato il superamento del Reddito di Cittadinanza: dal 2023 il RdC è stato limitato a soli 7 mesi per gli “occupabili” e abolito del tutto dal 1° gennaio 2024, sostituito da misure diverse (Supporto per la formazione e il lavoro e Assegno di inclusione per nuclei senza occupabili). Questo rispettava la promessa di Meloni di abolire il RdC per chi può lavorare, anche se il governo ha dovuto gestire proteste e l’allarme sul destino di migliaia di beneficiari. Nel decreto “Aiuti” di novembre 2022, il governo Meloni ha inoltre stanziato fondi per contenere il caro bollette durante l’inverno, continuando lo sforzo iniziato dal precedente esecutivo Draghi (di fatto onorando la promessa di aiutare famiglie e imprese sul fronte energia). Sul piano dei diritti della famiglia, già con la manovra 2023 sono state introdotte maggiorazioni dell’Assegno Unico per i figli (ad esempio un aumento del 50% dell’assegno per i nuclei con 3 o più figli di età inferiore a 3 anni, e incrementi per i neonati nelle famiglie numerose) – segnali coerenti con l’impegno di sostenere la natalità, sebbene in misura più limitata rispetto ai massimali annunciati in campagna elettorale.Tuttavia, nei primi provvedimenti si sono manifestate anche prime retromarce o scelte in contrasto con le promesse elettorali: il caso più eclatante è stato quello delle accise sui carburanti. Il governo uscente aveva ridotto le tasse sulla benzina e il diesel per alcuni mesi (taglio di circa 0,25 € al litro) per contrastare i prezzi elevati; Meloni durante la campagna aveva fatto credere che avrebbe mantenuto benzina e gasolio più economici tagliando le accise “inutili”. Invece, a fine 2022, l’esecutivo ha deciso di non rinnovare il taglio delle accise, facendo tornare la benzina al suo prezzo pieno dal 1° gennaio 2023. Questa scelta, motivata dal ministro dell’Economia come necessaria per reperire risorse (circa 10 miliardi di euro risparmiati non prolungando lo sconto), ha causato un forte aumento dei prezzi dei carburanti a inizio 2023 e una conseguente polemica pubblica. Meloni ha dovuto giustificare il passo indietro rispetto ai proclami: in una conferenza stampa di inizio gennaio 2023 ha spiegato che “tagliare le accise structuralmente costa troppo” e che il governo ha preferito destinare le poche risorse disponibili ad altre priorità sociali (come il taglio del cuneo fiscale e l’indicizzazione delle pensioni minime, seppur parziale). Questo episodio ha segnato uno dei primi scostamenti dalle promesse elettorali ed è emblematico delle difficoltà incontrate: la realtà dei conti pubblici ha imposto rinunce immediate su misure popolari ma costose.
  • Comunicazione e promesse nei primi mesi: Nonostante qualche marcia indietro concreta, nei primi mesi Meloni ha continuato a ribadire gli impegni presi in diverse occasioni pubbliche, pur invitando alla pazienza. Ad esempio, a fine 2022 e inizio 2023, in interviste televisive e messaggi social, la premier ha rassicurato la sua base dicendo che le riforme importanti (fisco, presidenzialismo, giustizia) erano in cantiere ma richiedevano tempo e preparazione. Ha rivendicato i primi risultati (come l’aver “ripristinato l’ordine” sui conti e “dato un segnale di discontinuità su tante questioni”) e ha chiesto comprensione per le scelte difficili fatte per responsabilità di governo. Per esempio, sul blocco navale – molto atteso dagli elettori di destra – Meloni nei primi mesi al governo ha abbassato i toni: invece di ordinare subito navi militari nel Mediterraneo, ha cercato sponde europee, incontrando prima i leader di UE e paesi come la Tunisia per stipulare accordi. Pubblicamente ha continuato a dire che “la difesa dei confini è una priorità” e che lavorava a soluzioni condivise (citando un “Piano Mattei per l’Africa” per aiutare quei paesi e frenare le partenze), ma di fatto il linguaggio di governo è diventato più prudente rispetto ai comizi elettorali. Analogamente, su altri temi come le pensioni o il taglio delle tasse, Meloni e i suoi ministri nei primi mesi hanno iniziato a sottolineare che “non si può fare tutto subito” e che certe riforme sarebbero state attuate gradualmente nel corso della legislatura, compatibilmente con le risorse. Questa narrazione segnala il passaggio dalla fase delle promesse elettorali alla fase della realpolitik di governo, in cui bisogna confrontarsi con vincoli concreti.

Promesse non mantenute: principali impegni disattesi e motivazioni

Dopo oltre un anno di governo Meloni, alcune promesse elettorali risultano realizzate o avviate (ad esempio: abolizione del RdC, sostegno all’Ucraina, innalzamento del tetto al contante, parziale riduzione del cuneo fiscale, più estrazione di gas nazionale), mentre molte altre sono ancora in sospeso o del tutto disattese. Concentrandoci su queste promesse non mantenute, cerchiamo di capire cosa non è stato fatto e perché, analizzando i fattori politici, economici e istituzionali che hanno impedito al governo di mantenere la parola data.

Di seguito, le principali promesse mancate di Meloni e le ragioni del mancato adempimento:

  • Blocco navale e stop all’immigrazione clandestina: Meloni non ha attuato l’annunciato “blocco navale” nel Mediterraneo e, più in generale, non è riuscita a ridurre gli sbarchi di migranti. Anzi, il 2023 ha visto un record di arrivi via mare sulle coste italiane (complice la crisi economica e politica in Tunisia e l’instabilità in Africa, che hanno aumentato le partenze). La promessa di fermare l’immigrazione irregolare è rimasta lontana dalla realtà. Perché il blocco navale non si è concretizzato? Principalmente per motivi istituzionali e diplomatici: un’operazione del genere, se fatta in modo unilaterale, equivarrebbe a un atto ostile in acque internazionali o libiche. Senza un accordo con i Paesi rivieraschi e l’Unione Europea, un “blocco” vero e proprio era impraticabile legalmente e logisticamente. Meloni, da Presidente del Consiglio, ha scoperto che deve rispettare trattati internazionali e coordinarsi con l’UE: ciò l’ha spinta a trasformare il “blocco navale” in proposte più soft (come la missione UE di collaborazione con la Tunisia per controllare le frontiere, o il decreto che limita le operazioni di soccorso delle ONG nel Mediterraneo). Ma queste misure si sono rivelate poco efficaci di fronte alla pressione migratoria. Un altro fattore politico è la mancanza di reale solidarietà UE: Meloni ha chiesto agli altri Paesi europei di accettare ricollocamenti dei migranti e di aiutare a presidiare il Nord Africa, ma ha ricevuto un aiuto limitato e lento. In sintesi, la promessa era probabilmente irrealizzabile nei termini annunciati: era uno slogan efficace all’opposizione, ma scontratosi poi con la complessità geopolitica. Fattori economici incidono meno direttamente qui, anche se va detto che organizzare e mantenere un blocco navale comporterebbe costi ingenti per l’Italia, senza garanzia di successo. Meloni ha dunque abbandonato l’idea originaria (tanto che nei discorsi ufficiali non parla più di “blocco navale”) e punta su accordi bilaterali (es. il patto con la Tunisia, finora fragile) e su provvedimenti interni più severi (come il nuovo reato di traffico di migranti). Ma almeno nel primo anno di governo, la promessa di “fermare l’immigrazione illegale” è stata disattesa, per cause che vanno dalla difformità tra propaganda e realtà giuridica alla situazione internazionale sfavorevole e alla solitudine dell’Italia in UE su questo fronte.
  • Taglio delle accise sui carburanti: come evidenziato, Meloni non ha ridotto le tasse sulla benzina, anzi la sua prima legge di bilancio ha reintrodotto pienamente le accise dopo lo sconto temporaneo del governo precedente. Questa è una promessa non mantenuta molto evidente, che ha creato malcontento tra gli automobilisti che si aspettavano benzina meno cara. Le ragioni sono fondamentalmente economiche: la premier e il ministro dell’Economia hanno valutato che rinunciare al gettito delle accise (circa 700 milioni di euro ogni mese di sconto di 25 centesimi al litro) fosse insostenibile per le casse statali, già provate dagli aiuti per l’energia. In campagna elettorale il tema era stato usato forse con leggerezza, senza specificare dove trovare le coperture finanziarie. Una volta al governo, di fronte alla scelta, Meloni ha privilegiato la tenuta dei conti pubblici. Inoltre, c’era un motivo politico/istituzionale: appena insediata, l’esecutivo Meloni voleva dimostrare responsabilità fiscale ai mercati finanziari e a Bruxelles, per evitare tensioni sullo spread. Confermare uno sgravio sui carburanti da decine di miliardi senza coperture avrebbe potuto allarmare gli investitori sul debito italiano. Dunque, realismo finanziario e vincoli di bilancio hanno prevalso sulla promessa. Meloni ha cercato di giustificarsi dicendo che il calo del prezzo industriale del petrolio nel frattempo aveva in parte reso meno urgente lo sconto, e che i fondi sono stati dirottati su misure più mirate (ad esempio, bonus trasporti pubblici per i redditi bassi, sebbene di portata ben minore). Resta il fatto che la promessa di “tagliare le accise” è stata tradita: una volta passata l’opposizione, il governo ha persino aumentato la pressione fiscale sui carburanti rispetto ai mesi pregressi, invertendo quella narrativa da “tasse inutili da eliminare” che Meloni aveva alimentato.
  • “Più assumi, meno paghi” – Super-deduzione per le nuove assunzioni: Questa proposta-bandiera non ha visto la luce. Nel primo anno di governo non è stata introdotta alcuna super-deduzione al 120-150% del costo del lavoro per chi aumenta l’organico, né subito né in seguito. Le aziende non hanno beneficiato di quel forte sgravio promesso da Meloni durante la campagna. Perché? Anche qui la ragione principale è economica: i tecnici del Ministero dell’Economia, una volta stimata la misura, l’hanno quantificata in circa 10 miliardi di euro di minor gettito – una cifra enorme, impossibile da coprire senza tagli o deficit aggiuntivo. Politicamente, Meloni ha dovuto riconoscere che non c’erano i margini di bilancio; inoltre il suo governo ha scelto di concentrare le risorse disponibili sul taglio (più contenuto) del cuneo fiscale per tutti i lavoratori a basso reddito, piuttosto che su un incentivo così massiccio alle sole nuove assunzioni. In pratica si è preferita una misura più piccola ma “per tutti” (2 punti di contributi in meno già da gennaio 2023, poi portati eccezionalmente a 6 punti in estate) rispetto a una maxi-deduzione che avrebbe favorito in modo selettivo le imprese in espansione. Un’altra considerazione politica è stata evitare squilibri: una super-deduzione molto generosa poteva creare disparità tra aziende e possibili abusi (assunzioni fittizie per ottenere lo sgravio). Così, la promessa del “più assumi meno paghi”, tanto enfatizzata prima delle elezioni, è stata di fatto accantonata. Meloni di rado l’ha menzionata dopo essere salita a Palazzo Chigi, segno che la consapevolezza di non poterla mantenere l’ha costretta a farla sparire dal dibattito. Di fronte a critiche su questo punto, gli esponenti di maggioranza hanno sottolineato il già citato taglio del cuneo fiscale come “surrogato” – un taglio definito “storico” (fino a 6-7 punti per i redditi medio-bassi), anche se temporaneo. Ma va riconosciuto che la riforma radicale promessa per il costo del lavoro non è avvenuta, frenata dai limiti di finanza pubblica.
  • Flat tax al 15% per tutti (o quasi): La “tassa piatta” era un tema chiave unificante per tutto il centrodestra. Ad oggi, il governo Meloni ha solo parzialmente realizzato questa promessa. È vero che dal 1° gennaio 2023 la flat tax per autonomi è stata ampliata (soglia a 85.000 € di ricavi anziché 65.000) e introdotta una flat tax incrementale al 15% sulla parte di reddito in più guadagnata nel 2023 rispetto all’anno precedente (entro certi limiti di reddito). Si tratta però di passi molto inferiori all’impegno preso di estendere gradualmente l’aliquota piatta a fasce ben più ampie di contribuenti. Manca completamente la flat tax per i lavoratori dipendenti e pensionati, che continuano a pagare IRPEF con aliquote progressive. L’orizzonte di una flat tax universale resta lontano. Le cause sono principalmente economiche e istituzionali: instaurare una flat tax per tutti al 15% avrebbe un costo stratosferico in termini di minor gettito (stime di decine di miliardi di euro), incompatibile con l’equilibrio di bilancio a meno di coperture miracolose o tagli drastici alla spesa pubblica. Inoltre, c’è un vincolo costituzionale di progressività dell’imposta sul reddito (Art. 53): una flat tax unica potrebbe violarlo, o comunque richiedere accorgimenti normativi complessi. Meloni, consapevole di ciò, ha adottato una strategia graduale: nel 2023 ha delegato al Parlamento una Legge Delega per la riforma fiscale, dove si delinea un percorso di riduzione a tre aliquote IRPEF (non una sola) e semplificazioni, rimandando al futuro ulteriori estensioni della flat tax. Dunque la promessa non è stata mantenuta nei fatti immediatamente, ma è “in corso” sulla carta, spostata più avanti. Politicamente, questa dilazione è stata necessaria per evitare sia lo scontro con l’Europa (una riforma fiscale radicale che incide sul deficit avrebbe preoccupato Bruxelles, in un momento in cui l’Italia ha bisogno di ottenere flessibilità sui conti e i fondi del PNRR) sia divisioni interne: all’interno della maggioranza stessa c’è chi spinge di più (Lega) e chi meno su questo tema, ma tutti hanno concordato che il primo anno andasse dedicato a misure più urgenti come l’energia. In sintesi, la flat tax generale rimane una promessa sospesa, non mantenuta nel breve periodo per ragioni di sostenibilità finanziaria e prudenza istituzionale; resta da vedere se a fine legislatura sarà realizzata parzialmente. Nel frattempo, Meloni può rivendicare solo piccoli passi rispetto al disegno originale.
  • Abolizione della legge Fornero e “Quota 41”: Anche su questo fronte la differenza tra promesse e risultati è marcata. La legge Fornero sulle pensioni è tuttora in vigore nei suoi parametri fondamentali (età di vecchiaia a 67 anni, requisito contributivo ordinario di oltre 42 anni). Il governo Meloni nel 2023 si è limitato a introdurre una misura temporanea di pensione anticipata denominata “Quota 103” (62 anni di età e almeno 41 anni di contributi), valida solo per il 2023 e prorogata poi di un anno con lievi modifiche. Questa soluzione transitoria ha permesso a poche migliaia di persone di ritirarsi prima, ma non rappresenta certo la rivoluzione promessa. Quota 41 per tutti, intesa come diritto generale ad andare in pensione dopo 41 anni di lavoro a prescindere dall’età, non è stata attuata. Perché? La motivazione è soprattutto economica: le stime indicano che introdurre Quota 41 stabile costerebbe molti miliardi all’anno e farebbe aumentare la spesa pensionistica (già altissima in Italia) in modo insostenibile, mettendo a rischio gli equilibri di bilancio e l’approvazione della Commissione UE (che monitora la sostenibilità del nostro sistema pensionistico). Meloni, in quanto leader di un governo responsabile del debito pubblico, non ha potuto ignorare questi numeri. Inoltre, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – esponente sì della Lega ma noto per la prudenza – si è mostrato contrario a misure pensionistiche avventate che spaventerebbero i mercati. Politicamente, quindi, Meloni ha dovuto disattendere l’aspettativa creata soprattutto dall’alleato Salvini, scegliendo una mini-riforma simbolica (Quota 103) per salvare la faccia, ma rimandando la vera partita sulle pensioni. Va aggiunto un fattore istituzionale: qualsiasi modifica strutturale alla legge Fornero richiede un dialogo con le parti sociali (sindacati) e possibilmente un consenso più ampio, data la delicatezza del tema e gli equilibri previdenziali a lungo termine. Il governo ha aperto tavoli tecnici, ma nessuna soluzione stabile è stata concordata nel primo anno. La promessa di “abolire la Fornero” dunque è non mantenuta finora – il sistema è sostanzialmente quello, con qualche deroga temporanea – e difficilmente potrà essere mantenuta in pieno senza compromettere altri obiettivi di finanza pubblica. In conclusione: ragioni di sostenibilità economica (costi elevati e vincoli sul debito) e di realismo politico hanno frenato questa promessa.
  • Aumento pensioni minime a 1000€: Questa promessa, associata soprattutto a Silvio Berlusconi ma avallata da tutta la coalizione, non è stata realizzata. Nel 2023 il governo ha aumentato le pensioni minime di importo molto modesto: un incremento straordinario di pochi punti percentuali, portando per gli over-75 le minime intorno a 600 euro mensili (ben lontano dai 1000 € promessi). Nel 2024 la cifra si attesta attorno ai 600€ per tutti gli anziani a minimo, ancora distante dall’obiettivo. Perché non sono 1000? Semplicemente perché costa troppo: portare ogni pensione minima a 1000 euro richiederebbe decine di miliardi all’anno, un onere che il bilancio statale non può permettersi senza coperture enormi. In campagna elettorale la promessa suonava bene per attirare il voto degli anziani, ma al governo nessuno ha veramente considerato praticabile quadruplicare l’incremento concesso. Anche politicamente, Meloni ha altre priorità di spesa; inoltre, va detto che essendo stata la proposta-bandiera di Berlusconi, dopo la scomparsa di quest’ultimo (giugno 2023) il tema ha perso un po’ di spinta propulsiva nella maggioranza. In sintesi, promessa non mantenuta per mancanza di risorse, e in parte perché l’elettorato non l’ha percepita come centrale per FdI (era più un impegno di Forza Italia).
  • Riduzione IVA su beni di prima necessità (es. prodotti per l’infanzia): Meloni aveva promesso di aiutare concretamente le famiglie abbassando le tasse sui prodotti fondamentali per i bambini (pannolini, latte artificiale, ecc.). Nei fatti, nel 2023 il governo ha applicato un taglio dell’IVA dal 22% al 5% su tali prodotti tramite la legge di Bilancio 2023, ma questa riduzione è stata poi eliminata dal 2024. Nella legge di Bilancio 2024 l’esecutivo non ha rinnovato l’IVA agevolata al 5%, che quindi è tornata all’aliquota ordinaria su pannolini e altri beni infantili. Ciò significa che l’aiuto è stato temporaneo e poi sospeso. La motivazione ufficiale – come spiegato dal Ministero dell’Economia – è che l’abbassamento dell’IVA non si è tradotto in un effettivo ribasso dei prezzi per i consumatori, poiché l’inflazione e le strategie dei rivenditori hanno di fatto annullato il beneficio. In altre parole, lo Stato ha rinunciato a entrate IVA nel 2023 ma i prezzi al dettaglio non sono davvero calati di un pari importo, quindi per il 2024 si è deciso di recuperare quel gettito. Questa spiegazione indica un mix di fattori economici (necessità di entrate fiscali) e pratici (valutazione di scarsa efficacia della misura). Resta però che la promessa di ridurre stabilmente l’IVA sui prodotti per l’infanzia non è stata mantenuta in modo duraturo. Alle famiglie che confidavano in un abbassamento strutturale dei costi di crescere un figlio è arrivato un segnale contraddittorio: un aiuto per 12 mesi, poi il ritorno alla normalità. Politicamente, questa retromarcia può essere letta come la conseguenza dei forti vincoli di bilancio: nel 2024 il governo Meloni si è trovato con margini strettissimi e ha dovuto fare cassa su più fronti, anche rinunciando ad alcune agevolazioni introdotte appena l’anno prima. La scelta di tagliare l’IVA nel 2023 era stata accolta positivamente (era in linea con il programma), ma evidentemente non sostenibile a regime, segno che la promessa iniziale era più onerosa del previsto. In generale, ciò riflette la difficoltà di Meloni nel mantenere tutte le promesse alla voce “aiuti alle famiglie”: per esempio, anche il progetto del quoziente familiare non si è concretizzato, se non come studio all’interno della delega fiscale. Le famiglie numerose hanno avuto qualche beneficio, ma meno di quanto annunciato.
  • “Impignorabilità della prima casa”: Meloni aveva solennemente promesso che avrebbe impedito per legge che la prima casa di proprietà di una famiglia potesse essere pignorata per debiti (salvo il caso del mancato pagamento del mutuo stesso). Dopo un anno di governo, nessuna norma nuova in tal senso è stata approvata. In realtà la legislazione italiana già prevede forti limiti al pignoramento dell’abitazione principale da parte del fisco, ma Meloni voleva sancire un principio più assoluto. Non è accaduto. Probabilmente la ragione è che non era una misura urgente né facile da definire: andava bilanciata con i diritti dei creditori e con il rischio di incentivare morosità. Politicamente il tema è passato in secondo piano, oscurato da altre emergenze. Inoltre può darsi che, una volta al governo, Meloni abbia realizzato che la promessa aveva un valore più propagandistico che pratico, dato che i casi di pignoramento della prima casa (esclusi quelli per mutui non pagati) sono già rari per legge. In sintesi la promessa è rimasta lettera morta, forse perché ritenuta meno prioritaria e già parzialmente coperta dalle norme esistenti.
  • Riforma Presidenzialista dello Stato: Questa è una promessa finora non mantenuta, o comunque rinviata sine die. Nel primo anno di governo non è stato presentato in Parlamento alcun disegno di legge costituzionale per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. La ministra per le Riforme, Elisabetta Casellati, ha condotto qualche consultazione informale e annunciato l’intenzione di agire, ma concretamente il governo ha cambiato approccio: negli ultimi mesi ha iniziato a parlare di riforma verso un “premierato”, ovvero il rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio, abbandonando di fatto l’idea di elezione diretta del Capo dello Stato. Questa virata indica che l’impegno originario del presidenzialismo è stato compromesso. Perché questa promessa è rimasta inattuata? I motivi sono istituzionali e politici. Una riforma costituzionale di tale portata richiede maggioranze qualificate in Parlamento (due terzi, per evitare il referendum confermativo) oppure, in caso di maggioranza semplice, espone a un referendum popolare dall’esito incerto. Al Senato, la maggioranza di centrodestra non ha i numeri per approvare da sola la riforma con due terzi, dunque dovrebbe trovare un accordo con parti dell’opposizione. Finora, le opposizioni (dal PD al M5S) si sono dette contrarie al presidenzialismo, rendendo impervia la strada. Politicamente, inoltre, Meloni ha dovuto fare i conti con la cronica difficoltà delle riforme costituzionali in Italia: anche governi precedenti con ampio consenso hanno fallito (es. il referendum bocciò la riforma Renzi nel 2016). Probabilmente, nel primo anno si è scelto di non investire il capitale politico su questo dossier, per non rischiare una sconfitta che avrebbe indebolito il governo. Nel frattempo, si è optato per un progetto meno divisivo come il premierato (elezione diretta del Primo Ministro o rafforzamento dei suoi poteri mantenendo il Presidente della Repubblica con ruolo attuale). Questo compromesso però snatura la promessa originale: Meloni in campagna parlava di “elezione diretta del Capo dello Stato dagli italiani”, ora il governo ipotizza altro. In pratica, la promessa del presidenzialismo è stata messa in pausa e alterata, per ragioni di realismo politico e ostacoli procedurali. È un classico caso di promessa ambiziosa che, scontrandosi con la necessità di ampie convergenze e tempi lunghi, viene ridimensionata. Al momento quindi il presidenzialismo è non mantenuto, e se anche a fine legislatura dovesse passare una riforma diversa (premierato), sarebbe comunque una deviazione rispetto all’impegno originario.
  • “Autonomia differenziata” avanzata per le Regioni: Questo impegno è ancora in stallo. Il ministro Roberto Calderoli (Lega) ha presentato un disegno di legge quadro sull’autonomia regionale differenziata, approvato dal Consiglio dei Ministri nel 2023, ma l’iter parlamentare è lungo e non concluso. Dunque la promessa di dare più poteri alle regioni (soprattutto Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna che lo chiedono) non si è concretizzata nei primi mesi. Motivazioni: Il tema è complesso e istituzionalmente delicato, perché richiede definire i Lep (livelli essenziali delle prestazioni) e assicurare che le regioni meno ricche non vengano penalizzate. C’è forte resistenza politica da parte di regioni del Sud e delle opposizioni, che temono un aumento del divario Nord-Sud. Meloni, pur alleata della Lega, deve equilibrare questa riforma con la coesione nazionale e con il proprio elettorato meridionale. Finora, l’autonomia non è una promessa “mancata” definitivamente, ma è rimandata e potrebbe incontrare ostacoli seri. Anche questo rientra tra gli impegni di legislatura non attuabili nei primi mesi, ma la cui sorte è incerta per le divisioni politiche che suscita.
  • Riforma della Giustizia e lotta ai “poteri forti”: Meloni in opposizione aveva tuonato contro varie storture (lungaggini processuali, politicizzazione delle toghe, privilegi dei potenti). Nei fatti, in un anno il suo governo ha fatto pochissimo delle riforme promesse in ambito giustizia. La separazione delle carriere in magistratura, ad esempio, è ancora una bozza di legge delega, lontana dall’attuazione. Non è stata toccata la legge Severino (che Meloni criticava per le interdizioni dei politici condannati). Le uniche misure concrete adottate sono state l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio (nella riforma approvata nel 2023, contestata da chi la vede come un favore ai politici locali) e alcune limitazioni all’uso delle intercettazioni per reati minori. Queste iniziative in realtà vanno nella direzione opposta rispetto a certe promesse di moralizzazione: anziché colpire “i potenti che sbagliano”, sembrano allentare controlli e sanzioni. Ad esempio, Meloni anni fa chiedeva di punire duramente i grandi evasori e i big del Web (vedi sotto), o di mettere un tetto agli stipendi dei manager in aziende che ricevono aiuti pubblici – ma nulla di simile è stato fatto. Perché tante mancate riforme sulla giustizia? In parte per priorità diverse: l’economia e l’energia hanno occupato l’agenda più della giustizia nel 2023. In parte per equilibri politici: il ministro Nordio ha idee liberali di riforma, ma nel governo ci sono anime più conservatrici sulla giustizia (es. la Lega, attenta ai temi sicurezza, e parte di FdI stessa), quindi non c’è stato ancora un piano organico condiviso. Inoltre ogni riforma della giustizia incontra l’ostilità di una parte della magistratura e dell’opposizione, richiedendo tempo e mediazione. Così molte promesse (una “giustizia giusta e celere”, parole del programma) restano sulla carta. Politicamente, Meloni ha evitato scontri frontali su temi come le grandi inchieste o l’anti-corruzione, forse per non generare polemiche internazionali o con l’opinione pubblica (considerando che il suo governo ha comunque approvato provvedimenti discutibili come il cosiddetto “decreto salva-orsi” sulla giustizia tributaria dei politici locali). In sintesi, riforme strutturali promesse come la separazione delle carriere, tempi rapidi dei processi, o battaglie ai privilegi dei potenti, non hanno visto progressi sostanziali nel primo anno, vuoi per mancanza di tempo, vuoi per prudenza e calcolo politico (alcune di esse rischierebbero di compattare le opposizioni e creare proteste di piazza, cosa che Meloni finora ha cercato di evitare nei primi mesi di governo per mantenere stabilità).
  • Tetto agli stipendi dei manager pubblici e stop ai dividendi per aziende aiutate: Questa era una proposta curiosa di Meloni in campagna, parte della retorica contro i “poteri forti”: «Se un’azienda è in crisi e ricorre alla cassa integrazione, gli stipendi dei suoi manager devono avere un tetto come per i dirigenti pubblici (240mila € annui) e l’anno dopo non ci devono essere dividendi per gli azionisti» – stessa cosa per le banche salvate con soldi pubblici. Nel primo anno di governo, questa promessa è stata ignorata. Anzi, il governo ha approvato varie deroghe per aumentare oltre il tetto di 240mila euro gli stipendi di alcuni alti dirigenti pubblici (ad esempio per le nuove figure apicali create, come i vertici della società che gestirà il Ponte sullo Stretto di Messina, o per alcuni manager di ministeri e aziende statali). Quindi invece di imporre nuovi tetti, li ha in alcuni casi alzati. Anche sui dividendi nessuna norma è stata introdotta: banche e aziende, anche se agevolate dallo Stato (es. con crediti d’imposta o garanzie), hanno continuato liberamente a distribuire utili. Perché questa retromarcia? Con molta probabilità, ragioni politiche e pratiche: una volta al governo, misure così interventiste nell’economia sono parse a Meloni poco vantaggiose. Porre un tetto ai compensi dei top manager potrebbe rendere difficile attrarre figure di alto profilo nelle partecipate pubbliche; vietare dividendi dopo aiuti è complicato da normare e rischia di spaventare gli investitori. Insomma, il governo di destra si è rivelato piuttosto attento a non inimicarsi il mondo imprenditoriale e finanziario. Quella promessa apparteneva alla retorica “populista” d’opposizione, ma al potere è stata dimenticata per mantenere un profilo più liberale e amico delle imprese. Inoltre non era certo una priorità sentita dall’elettorato: i sostenitori di Meloni difficilmente la voteranno meno per non aver tagliato gli stipendi dei manager, mentre avrebbero reagito male su altri temi simbolici. Quindi anche qui la promessa è caduta nell’oblio per scelta politica e convenienza.
  • Battaglia ai colossi del Web e grandi evasori: Dall’opposizione Meloni diceva spesso che lo Stato doveva andare a prendere i soldi dai grandi gruppi multinazionali (Big Tech, etc.) anziché vessare piccoli imprenditori e commercianti. In particolare, nel 2019 attaccò il governo Conte per una web tax troppo esigua, proponendo lei di tassare i giganti digitali “in base agli accessi” (un’idea suggestiva di imposizione). Nel programma 2022 si parlava di lotta all’evasione concentrata sui grandi evasori piuttosto che sulle micro-imprese. Cosa è stato fatto? Praticamente nulla di nuovo in questo senso. Non è stata varata alcuna nuova tassa specifica sui colossi del web; l’Italia ha atteso e poi recepito gli accordi internazionali in sede OCSE sulla minimum tax globale, ma iniziative autonome non ce ne sono. Quanto all’evasione, il primo anno di governo Meloni ha visto anzi sanatorie e “pace fiscali” per cartelle esattoriali fino a 1.000 euro cancellate e rateizzazioni agevolate per debiti tributari: provvedimenti che vanno incontro soprattutto ai piccoli evasori, contraddicendo l’idea di concentrare gli sforzi solo sui grandi. Motivazioni: qui si intrecciano scelte politiche e vincoli sovranazionali. Sulle Big Tech, l’Italia da sola ha margine ristretto: esiste già una Digital Tax del 3% introdotta nel 2020, ma ulteriori mosse vengono concertate in UE (dove si sta cercando un approccio comune) e a livello OCSE. Meloni ha preferito non aprire fronti unilaterali che avrebbero potuto portare ritorsioni o disincentivare gli investimenti (p. es. tassare troppo Google o Meta potrebbe provocare spostamento di sedi e zero incasso). Sui grandi evasori, colpire duramente significa spesso misure repressive poco popolari (come il carcere per reati fiscali gravi) o investimenti massicci in controlli e tecnologie: elementi non emersi nell’azione di governo iniziale. Al contrario, la maggioranza di centrodestra tende per ideologia a favorire tregue fiscali e condoni, che sono in contrasto con una retorica da “law & order” in campo fiscale. Dunque la promessa di “far pagare i big e lasciare in pace i piccoli” è rimasta inevasa e incoerente: per scelta politica (si è privilegiato accontentare la base degli autonomi e piccoli imprenditori condonando il passato) e per la necessità di muoversi assieme all’Europa su temi di tassazione globale. Da notare che l’unica iniziativa di tassazione straordinaria varata è stata la tassa sugli extraprofitti delle banche (agosto 2023) – una sorta di contributo di solidarietà sulle enormi plusvalenze da tassi d’interesse – ma il governo, dopo un iniziale clamore, l’ha subito annacquata per il panico dei mercati (limitando il prelievo e introducendo la possibilità per le banche di convertirlo in riserve patrimoniali). Anche in quel caso, proclamare “facciamo pagare i poteri forti bancari” è durato poco, e di fronte al rischio di fuga di capitali la misura è stata ridimensionata. Questa vicenda riflette bene la cifra del governo Meloni: pragmatismo e cautela sui temi economici quando in ballo c’è la stabilità finanziaria, anche al costo di smentire dichiarazioni bellicose.
  • Superbonus 110% e bonus edilizi: Un capitolo notevole è quello del Superbonus per le ristrutturazioni edilizie. In campagna elettorale, Meloni e FdI erano stati critici sui difetti del Superbonus 110% (bonus introdotto dal M5S con molti problemi di coperture e frodi), ma promettevano di non eliminarlo bruscamente. Anzi, esponenti di Fratelli d’Italia, prima di andare al governo, chiedevano proroghe del Superbonus almeno fino al 2025 per dare certezze a famiglie e imprese edili, evitando continui cambi di aliquota. Questo impegno a non “spegnere” subito gli incentivi è stato disatteso clamorosamente: a febbraio 2023 il governo Meloni ha varato un decreto che ha bloccato la cessione dei crediti e lo sconto in fattura per i bonus edilizi, di fatto cancellando il Superbonus 110% per il futuro e lasciando attive solo le detrazioni ordinarie in dichiarazione dei redditi (con aliquota via via calante). La decisione, giustificata con la necessità di fermare un’esplosione della spesa pubblica e mettere in sicurezza i conti, è stata un’inversione a U rispetto alle aperture iniziali. Perché Meloni ha fatto il contrario di quanto lasciato intendere? Le ragioni sono quasi esclusivamente economico-finanziarie: una volta al governo, il MEF ha certificato che il Superbonus stava costando allo Stato oltre 100 miliardi, creando un buco di bilancio pesante e problemi di sostenibilità del debito (dato che i crediti fiscali accumulati dalle imprese incidevano sul deficit annuale). Inoltre erano emersi molti casi di frode e gonfiamento dei prezzi. Così Meloni ha scelto una linea drastica, per rassicurare l’UE e i mercati sul fatto che l’Italia controllava la situazione. Politicamente, ciò significava scontentare molti elettori (anche di centrodestra) che avevano cantieri in corso o speravano di avviare lavori con il bonus: infatti ci sono state forti proteste dalle associazioni di categoria. Ma il governo ha valutato che il costo di proseguire sarebbe stato peggiore. Questa è una promessa tradita dal punto di vista di chi si aspettava continuità fino al 2025: FdI inizialmente diceva di voler gestire meglio il Superbonus, non eliminarlo subito, invece in pochi mesi lo ha quasi azzerato. La motivazione addotta è stata che la situazione ereditata era insostenibile e occorreva correggere gli errori dei predecessori. In effetti, la mossa di Meloni mirava a marcare la discontinuità rispetto al governo M5S-PD che aveva creato il bonus: un calcolo politico di segno opposto alla promessa iniziale, cioè mostrare rigore contro una misura considerata simbolo di spreco grillino. Questo ha un po’ spiazzato gli osservatori, perché ci si attendeva un ridimensionamento graduale e invece c’è stato un colpo di spugna. Il risultato è che la promessa implicita di stabilità normativa fino al 2025 è stata infranta, causando incertezza nel settore edilizio – ma dal punto di vista del governo era il male minore per preservare i conti pubblici. Un altro bonus rinnegato è stato quello per l’acquisto di auto elettriche e veicoli non inquinanti: la precedente programmazione prevedeva fondi e incentivi, che il governo Meloni ha in parte definanziato o spostato, preferendo incentivi per l’acquisto di auto usate Euro 6 e simili. Anche qui, un cambio di priorità (meno green, più vicino all’industria automobilistica tradizionale) ha prevalso su impegni ambientali.
  • Ambiente e transizione ecologica: Pur non essendo stato un tema centralissimo per Meloni, nel programma c’erano comunque promesse di tutela ambientale (ad esempio piantare 6,6 milioni di alberi entro il 2024 attingendo ai fondi del PNRR, e istituire nuove riserve naturali per proteggere biodiversità). Questo obiettivo non solo non è stato raggiunto, ma è stato ridimensionato dallo stesso governo. Nel 2023 l’esecutivo ha chiesto all’Unione Europea di rivedere gli obiettivi del PNRR, includendo la richiesta di ridurre il traguardo di riforestazione perché considerato “irrealistico”. In pratica, hanno ammesso che non riusciranno a piantare tutti quegli alberi nei tempi previsti e vogliono abbassare l’asticella. Motivi: organizzativi e istituzionali – i progetti PNRR in materia ambientale erano partiti in ritardo già prima, e il nuovo governo ha deciso di concentrare le risorse altrove (es. più investimenti su energia). Politicamente, la destra non ha mai messo il tema ambientale al primo posto; di conseguenza, promesse come gli alberi piantati sono passate in secondo piano. Anche nuove aree protette o parchi nazionali non risultano istituiti nel primo anno. Al contrario, il governo ha autorizzato nuove trivellazioni in Adriatico per gas e petrolio (contraddicendo chi li accusava di essere “contro le trivelle” in passato – sebbene in realtà Meloni non fosse mai stata ambientalista radicale). Inoltre ha allentato alcuni vincoli (ad esempio sulle trivelle entro 9 miglia dalla costa, ora permesse in deroga, e sulle energie fossili), suscitando critiche dagli ecologisti. Dunque, la parte “verde” delle promesse meloniane è rimasta indietro: promesse ambientali non mantenute per scelta di dare priorità alla sicurezza energetica e alle esigenze economiche. Meloni ha di fatto applicato una visione in cui la transizione ecologica deve essere compatibile con la competitività: ciò ha significato rinviare o ridurre impegni ecologici ambiziosi (come appunto il rimboschimento di massa) e focalizzarsi su misure di breve termine per abbassare i costi energetici. Nel contesto europeo, il governo si è battuto per ammorbidire alcune normative green (ad esempio chiedendo deroghe allo stop delle auto a benzina/diesel dal 2035, difendendo i biocarburanti italiani, rallentando su direttive sugli immobili “green”), in coerenza con l’atteggiamento più scettico di Meloni verso vincoli ambientali rigidi. Quindi se consideriamo una promessa implicita – ossia “non piegheremo le nostre imprese a regole ecologiche penalizzanti” – questa è stata mantenuta; ma le promesse positive in tema ambientale (fare di più per la natura) non hanno trovato attuazione per mancanza di impegno e per conflitto con altri obiettivi economici.
  • Altre promesse e casi di retromarcia: Ci sono ulteriori esempi di impegni annunciati e poi “dimenticati”:
    • Decoupling prezzo gas-energia: Meloni lo aveva presentato come primo atto di governo, ma non è mai stato fatto a livello nazionale. Ragione: una volta in carica, ha verificato che senza accordo europeo sarebbe stato complicato e costoso e che nel frattempo l’UE stava affrontando la questione (infatti Bruxelles ha introdotto un meccanismo di tetto al prezzo del gas e altre riforme del mercato elettrico in corso di definizione). Così il governo italiano ha accantonato l’idea di una misura autonoma. Quando i prezzi del gas sono scesi nella primavera 2023, l’urgenza è venuta meno e Meloni non ne ha parlato più. Questo è un tipico esempio di promessa emergenziale poi superata dai fatti.
    • Emigrazione dei giovani (“fuga di cervelli”): Meloni in campagna diceva “Largo ai giovani” e prometteva iniziative per trattenerli in Italia (agevolazioni per il rientro, ecc.). Nei fatti, politiche incisive su questo fronte non se ne sono viste nei primi mesi. Il fenomeno è strutturale e non risolvibile in breve, ma non ci sono state novità specifiche (tolta la retorica del merito e qualche incentivo all’assunzione giovanile inserito nella manovra).
    • Taglio ai costi della politica: anche se non era un punto chiarissimo del programma, la coalizione aveva promesso rigore (già il precedente parlamento aveva tagliato il numero di parlamentari). Nel primo anno, però, si sono verificate decisioni che hanno aumentato alcuni costi (es. più membri nei gabinetti ministeriali, aumento stipendi di ministri-tecnici equiparati a parlamentari, come nel caso dei tecnici non parlamentari a cui è stato alzato lo stipendio). Meloni stessa ha mantenuto lo staff ampio. Nulla di enorme, ma segnale che non c’è stata quell’austerità per la “casta” che qualcuno auspicava. Va detto che non ha nemmeno introdotto privilegi nuovi, ma l’idea di dare l’esempio sui tagli ai costi istituzionali non si è vista molto.
    • Privatizzazioni di asset statali: in passato Meloni criticava svendite di aziende italiane strategiche. Nei primi mesi di governo, però, è stata decisa la vendita di ITA Airways (ex Alitalia) a Lufthansa per una quota iniziale del 41% e progressivamente di più – di fatto consegnando la compagnia di bandiera ai tedeschi, scelta opposta al patriottismo economico proclamato (anche se fatta per evitare continui perdite pubbliche). Inoltre, il governo ha pianificato cessioni di quote di società pubbliche (Enel, Poste Italiane, etc.) per fare cassa e ridurre il debito. Questo contraddice le affermazioni passate di Meloni contrarie a privatizzazioni di pezzi di sovranità economica. Spiegazione: una volta al Tesoro, ci si rende conto che vendere parte delle partecipazioni statali può portare introiti e migliorare alcuni indicatori finanziari; Meloni lo ha accettato per necessità di bilancio e anche per rispettare impegni europei di concorrenza (caso ITA). Dunque un altro ambito in cui la realpolitik ha fatto premio sui proclami sovranisti.
    • Rapporti con l’UE e austerità: Su un piano più generale, Meloni aveva promesso un’Italia meno succube dei vincoli UE, “basta austerità”. Eppure, nel primo anno, ha tenuto conti pubblici molto prudenti, tanto che osservatori come l’ex premier Mario Monti (simbolo dell’austerità) le hanno riconosciuto “disciplina di bilancio”. Questo è visto da alcuni come un tradimento della promessa di espansione economica: in effetti, Meloni non ha fatto uno scostamento di bilancio (extra deficit) per nuove spese, scelta dettata dal voler evitare instabilità finanziaria. Ha rispettato i paletti (deficit/PIL intorno al livello concordato) e in autunno 2023 ha presentato una manovra 2024 restrittiva, ammettendo poche risorse. Motivazione: vincoli economici stringenti (debito 145% del PIL, inflazione, tassi alti) e pressione dei mercati – qualsiasi passo falso avrebbe potuto far salire lo spread. Politicamente, Meloni ha scelto di rassicurare Bruxelles per ottenere in cambio flessibilità sul PNRR e evitare procedimenti d’infrazione. Questo le ha fatto rimandare molte spese promesse (taglio tasse più radicale, pensioni più generose, ecc.). Quindi, anche se non dichiarata esplicitamente come “promessa” elettorale, la retorica anti-austerità si è scontrata con la continuità su una linea di guardia ai conti, configurando un altro punto su cui l’azione di governo è diversa dalle aspettative create.
ROME, ITALY – SEPTEMBER 16: Italy’s Premier Giorgia Meloni and UK Prime Minister Keir Starmer (not seen) hold a joint press conference at the end of the their meeting at Villa Pamphilj in Rome, Italy, on September 16, 2024. Riccardo De Luca / Anadolu/ABACAPRESS.COM

Perché alcune promesse sono rimaste incompiute? – Analisi dei fattori di ostacolo

Dall’elenco sopra emerge che molte promesse di Giorgia Meloni non sono state mantenute nei primi mesi (e anno) di governo. Le cause di questi mancati adempimenti sono spesso multidimensionali, combinando vincoli economici, ostacoli istituzionali e considerazioni politiche. Riassumiamo i principali fattori generali che hanno impedito a Meloni di realizzare tutti gli impegni annunciati:

  • Vincoli di bilancio e situazione economica: Questo è senza dubbio il fattore predominante. La nuova premier ha ereditato un debito pubblico altissimo e un quadro finanziario già gravato dalle spese per la pandemia e il caro-energia. Ogni misura promessa – dal taglio delle tasse all’aumento di pensioni e aiuti – necessitava di coperture. Una volta al governo, Meloni ha dovuto confrontarsi con la realtà delle cifre: non c’erano risorse sufficienti per finanziare contemporaneamente flat tax, Quota 41, aumenti dell’assegno unico, incentivi a raffica, ecc. senza sfondare il deficit. Inoltre, l’inflazione e la politica monetaria restrittiva della BCE (aumento dei tassi) hanno lasciato meno margini di manovra: con i tassi in salita, il costo del debito italiano è diventato più elevato, obbligando a maggiore prudenza. In sostanza, il rischio di una crisi finanziaria (aumento dello spread, perdita di fiducia degli investitori) ha funzionato da guardiano, spingendo Meloni a scelte conservative. Questo spiega perché diverse promesse economiche siano state ridimensionate o rinviate: semplicemente il bilancio dello Stato non le poteva sostenere subito. La necessità di assicurarsi la tranche di fondi del PNRR e di mostrarsi affidabile agli occhi dell’UE e dei mercati ha fatto sì che Meloni impostasse una prima manovra relativamente restrittiva, scontentando chi voleva più espansione. In conclusione, l’elemento economico-finanziario (fare i conti con coperta corta e debito alto) è stato determinante nel tradurre molte promesse in compromessi al ribasso.
  • Ostacoli istituzionali e normativi: Alcune promesse richiedono iter legislativi complessi o modifiche costituzionali per essere attuate. Ad esempio, il presidenzialismo e la separazione delle carriere in magistratura implicano riforme della Costituzione, che non si fanno in pochi mesi e necessitano di maggioranze ampie o referendum confermativi. Questi processi sono lenti e incerti: nel frattempo, agli occhi dell’opinione pubblica sembrerà che la promessa sia disattesa, anche se formalmente “in lavorazione”. Analogamente, misure come il quoziente familiare o la flat tax generalizzata implicano riscrivere interi pezzi di ordinamento tributario, consultare categorie, ottenere via libera dall’UE su eventuali scostamenti dai parametri – tutte cose che rallentano l’azione. Nel caso del blocco navale, l’ostacolo è di diritto internazionale: un governo non può violare le acque libiche senza mandato, e non può respingere richiedenti asilo in alto mare per normative internazionali sul diritto d’asilo. Quindi promesse fatte magari senza approfondire i vincoli normativi sono poi naufragate contro di essi. Persino la gestione del Superbonus era incastrata in norme europee di contabilità (Eurostat ha cambiato le regole sui crediti rendendolo pesantissimo sul deficit, costringendo il governo a intervenire). Insomma, l’ingranaggio istituzionale-burocratico italiano ed europeo spesso non consente svolte rapide, o addirittura rende irrealizzabili alcune idee. Meloni ha dovuto adattarsi a questo contesto, scoprendo che governare significa anche rispettare procedure e limiti che dall’opposizione potevano essere ignorati nei comizi. Ciò ha diluito o affossato parecchie promesse (specialmente quelle più rivoluzionarie come presidenzialismo, flat tax totale, riforme di struttura).
  • Compromessi e calcoli politici: Un ulteriore fattore è la volontà politica effettiva e le priorità di governo. Non tutte le promesse elettorali hanno lo stesso peso una volta al potere. Alcune vengono subito privilegiate perché identitarie e urgenti (per Meloni, abolire il RdC e alzare il contante erano importanti per marcare identità fin da subito; infatti le ha fatte), altre vengono messe in secondo piano o sacrificatesi perché giudicate meno strategiche o potenzialmente dannose da perseguire. Ad esempio, l’inasprimento fiscale verso i colossi del web o il tetto ai super stipendi manageriali si scontrava con l’impronta pro-impresa che Meloni voleva dare al governo: è probabile che queste promesse siano state consciamente accantonate per non generare conflitto con il mondo produttivo e finanziario, all’insegna di una realpolitik moderata. Allo stesso modo, alcune battaglie identitarie di nicchia (come certe posizioni sui temi etici o sui diritti civili) sono state depotenziate per evitare spaccature sociali o con i partner internazionali. Un esempio: Meloni in passato strizzava l’occhio ai movimenti pro-life e prometteva sostegni concreti per alternative all’aborto, ma da Presidente del Consiglio non ha toccato la legge 194 e ha mantenuto un profilo basso sul tema, consapevole che aprire fronti ideologici avrebbe tolto consenso al governo in settori moderati. In generale, quando si governa in coalizione, occorre anche bilanciare le promesse dei vari alleati: non tutte erano priorità di FdI. Alcune bandiere leghiste (ad es. autonomia regionale spinta, pensioni) e forziste (pensioni a 1000€, condoni edilizi ecc.) hanno dovuto trovare posto ma con moderazione, e alcune sono state posticipate creando scontento negli alleati (Salvini ad esempio spingeva per più coraggio su quota 41, ma ha dovuto accontentarsi di poco). Quindi compromessi interni alla maggioranza e convenienze politiche hanno influenzato l’agenda, facendo dimenticare alcune promesse meno prioritarie o più rischiose. Meloni ha scelto con cura dove investire il capitale politico (ad esempio sul posizionamento internazionale saldo, sacrificando la retorica anti-UE, oppure su alcuni provvedimenti simbolici di destra come il decreto anti-rave party a inizio mandato) e dove invece fare marcia indietro. Questo spiega perché alcune promesse siano rimaste lettera morta: semplicemente la premier ha cambiato opinione o strategia, ritenendo che mantenerle avrebbe portato più svantaggi che vantaggi.
  • Scenario internazionale e fattori esterni: Non bisogna trascurare che durante il primo anno di governo Meloni si sono verificati eventi e condizioni esterne che hanno influenzato l’azione. L’andamento della guerra in Ucraina, la crisi migratoria dalla Tunisia, le tensioni sui mercati energetici, la stessa scomparsa di Berlusconi (che ha rimescolato alcune dinamiche politiche interne) sono elementi che possono aver fatto deviare risorse e attenzione rispetto ai piani originari. Ad esempio, la necessità di inviare aiuti militari all’Ucraina e di gestire le conseguenze economiche della guerra ha occupato tempo e risorse, spingendo altre riforme in coda. Oppure, l’esplosione degli sbarchi nell’estate 2023 ha costretto Meloni a concentrarsi su misure tampone e richieste all’Europa, senza però avere successo: un contesto sfavorevole che ha vanificato la promessa di controllo dei flussi migratori. Questi fattori non erano pienamente prevedibili o comunque sfuggono in parte al controllo del governo, ma incidono sul bilancio delle promesse mancate.

In sintesi, il mancato mantenimento di diverse promesse di Giorgia Meloni è dovuto a un insieme di pragmatismo forzato e limitazioni strutturali: la differenza tra la semplicità di una promessa elettorale e la complessità dell’attuazione concreta. Governi precedenti hanno vissuto situazioni simili, ma nel caso di Meloni l’aspettativa era alta perché aveva basato la sua ascesa anche sull’idea di “fare finalmente quello che gli altri non hanno fatto”. Il parziale disallineamento tra aspettative e realtà è fisiologico ma anche politico: Meloni ha compiuto alcune giravolte (capovolgendo posizioni come sul Superbonus o sulle politiche di bilancio) perché, da leader pragmatica, ha preferito adattarsi alle condizioni date piuttosto che perseguire a tutti i costi promesse che potevano danneggiare l’Italia o la stabilità del suo governo.

Tracciando una panoramica complessiva, si può affermare che nei primi mesi (e anno abbondante) di governo Meloni molte promesse elettorali sono rimaste inattuate o solo parzialmente avviate.

Alcune sono state mantenute, a testimonianza della volontà di segnare discontinuità su certi fronti (ad esempio l’abolizione del Reddito di Cittadinanza, il sostegno alla natalità con piccoli interventi, l’aumento del limite al contante, il supporto pieno all’Ucraina, e in generale una linea di governo stabile e coesa come promesso agli elettori di destra). Tuttavia, numerosi impegni importanti – dal blocco navale all’atteso alleggerimento fiscale generalizzato, dalle grandi riforme istituzionali alle misure shock per lavoro e imprese – non hanno visto la luce nei tempi annunciati. Le ragioni, come analizzato, risiedono principalmente nei vincoli finanziari stringenti, nelle procedure legislative complesse, nonché in scelte politiche prudenti che Meloni ha adottato una volta insediata.

In altri termini, la realtà del governare ha imposto a Giorgia Meloni un ridimensionamento delle promesse fatte in campagna elettorale. Questa non è una giustificazione, ma una constatazione di fatto: molte soluzioni prospettate si sono rivelate non immediatamente praticabili. Dal punto di vista dei suoi elettori, ciò può essere deludente – e infatti i sondaggi hanno registrato qualche calo di fiducia quando alcuni temi bandiera sono stati accantonati – ma finora Meloni ha mantenuto intatto un forte sostegno, probabilmente perché è riuscita a comunicare che “ci proveremo nei prossimi anni, serve tempo”. Inoltre, ha cercato di attribuire la colpa dei rallentamenti a fattori esterni: l’“eredità pesante” lasciata dai predecessori, i paletti europei, ecc., narrando il tutto come un percorso ancora in essere più che come promesse tradite.

Resta da vedere se, col procedere della legislatura, il governo Meloni recupererà alcune di queste promesse oggi non mantenute o se le accantonerà definitivamente. Di certo, l’esperienza dei primi mesi evidenzia uno scarto tra annuncio e realizzazione che è spiegabile, oltre che con i fattori già elencati, anche con la tradizionale dialettica politica italiana: in campagna elettorale si semplifica e si enfatizza, mentre al governo si naviga a vista tra ostacoli e compromessi. Giorgia Meloni ha dimostrato di saper governare in modo pragmatico, ma ciò ha comportato cedere su vari fronti rispetto agli impegni presi con gli elettori.

La panoramica delle promesse di Meloni mostra luci e ombre: alcune riforme avviate, molte in ritardo. Le promesse non mantenute finora trovano spiegazione in motivi economici (mancanza di fondi, rischio di instabilità), istituzionali (richieste di modifiche costituzionali o accordi internazionali), e scelte politiche di moderazione. Questo non significa che tali promesse siano state cancellate del tutto – in alcuni casi potrebbero realizzarsi più avanti – ma allo stato attuale esse rimangono obiettivi mancati, insegnando ancora una volta quanto sia arduo trasformare un programma elettorale in azione di governo concreta, specialmente in un contesto complesso come quello italiano.

Ignoranti, e noi Italiani che faremo? Beliamo!

Ignoranti, votare o non votare, nulla cambiare (Yoda). Le elezioni sono solo un’illusione di scelta, un teatrino in cui si fa finta che il popolo decida, quando in realtà chi comanda è già deciso. I volti cambiano, i partiti si alternano, ma il potere resta nelle stesse mani. Tu credi di scegliere, ma in realtà loro hanno già scelto per te.

Non distinguere il lupo per il colore del pelo. Noi siamo sempre pecore, loro sempre lupi. Da secoli va così: noi chini, loro predatori. Ma c’era chi diceva: ribellati, ribellati ancora, ignorante, perché solo così da pecora diventi lupo. E il lupo ha denti, ha artigli, ha il potere di fare la differenza. Ma l’italiano? L’italiano è pecora da generazioni, lo ha dimostrato nella storia, si è piegato, si è adeguato, si è abituato a vivere in balia dei lupi, consegnando loro il potere senza combattere.

Non possiamo essere artefici del nostro destino, ma solo spettatori passivi, vittime consenzienti. Chi governa, governa perché noi glielo permettiamo.

È questa la verità che nessuno vuole accettare. Non esiste speranza per chi non ha il coraggio di mordere invece di belare.

Donovan Rossetto

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